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APPROFONDIMENTI - Certificato medico: serve la visita

di Enrico Andreoli, Giurista sanitario - 07.02.2013 09:16

Il medico è obbligato a compilare diligentemente il certificato che attesti dati clinici documentati. Così dispone l’articolo 24 del codice deontologico della professione. Di converso risulta affetto da nullità il documento certificativo di malattia, finalizzato alla giustificazione dell’assenza dal lavoro, basato esclusivamente sulle dichiarazioni del paziente e scevro di una visita appropriata.

Questo ha deliberato recentemente la Sezione Civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 3705 del 9 marzo 2012, sancendo la violazione del citato articolo.

Il caso trattato dall’organo supremo giudiziario si riferisce alla fattispecie di una certificazione “a posteriori”, cioè riferita ad attestazioni dell’assistito riguardanti il suo stato di indisposizione nei giorni precedenti (nei quali non era stato sottoposto ad alcuna visita) all’accertamento medico. Il dubbio sulla veridicità o meno della patologia deriva proprio dal fatto che il certificato medico proviene da un camice bianco e su moduli ad hoc. Indisposizioni che si rivelano in realtà palesemente false, di conseguenza si configura l’applicazione dell’articolo 480 del codice penale, il quale disciplina il reato di falso ideologico.

La norma stabilisce che «Il pubblico ufficiale, che, nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente, in certificati o autorizzazioni amministrative, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione da tre mesi a due anni». Il novero dei certificati vietati si estende anche a quelli inerenti la riammissione nell’istituto scolastico di studenti, non sottoposti a visita medica nel periodo di assenza per indisposizione temporanea, sempre in base ai relata.

Discorso a parte deve essere fatto per i certificati anamnestici, previsti in casi particolari, come ad esempio per l’idoneità al porto d’armi. Essi si fondano sull’anamnesi, vale a dire in assenza della visita medica e sulla base delle informazioni acquisite e valutate dal clinico, il quale deve effettuare una ricognizione della storia clinica del paziente. Egli ha la possibilità di diagnosticare in “buona fede” in tre casi: sulla base dell’anamnesi citata e dell’esame obiettivo; su lettere di dimissioni ospedaliere; su esiti di consulti specialistici.

Una buona fede certificativa che deve essere posta al vaglio in quanto fissa dei diritti a favore del richiedente. Nel caso concreto in cui vi sia una certificazione anamnestica derivante dall’inganno consapevole dell’assistito con il solo scopo di ottenere il documento, dalla quale sia scaturita una “onesta” attestazione di una «sindrome non obiettivabile», il sanitario non è imputabile per il reato di falso ideologico. Nella specifica situazione sarà chiamato il paziente a rispondere per false dichiarazioni.

Così si era espressa la Suprema Corte.

Il puro dolo del medico, quindi la intenzionalità della condotta illecita, si configura quando il giudizio diagnostico si fonda su fatti non veridici, esplicitamente dichiarati e conosciuti dal soggetto attestante. In poche parole fare una diagnosi, facendo comprendere in modo intenzionale che è avvenuto un accertamento.

Questo è l’orientamento seguito da lungo tempo dalla giurisprudenza di legittimità (Cassazione Penale Sezione VI n. 11482/1977; Cassazione Penale Sezione V n. 149762/1992), segnalando a latere gli Ermellini stessi la non sussistenza della figura del falso documentale colposo.

In conclusione, in seguito all’esame dei “confini” appena scorsi dell’attività certificativa medica, occorre rilevare come sia importante sempre “fidarsi” della attendibilità di un esame empirico, di una visita reale e tangibile del paziente per accertarne la obiettiva malattia o il temporaneo disturbo.

Ciò ovviamente un po’ a detrimento del rapporto curante-assistito, ma a naturale vantaggio della salute del cittadino. Dura lex, sed lex. La legge della salute.