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APPROFONDIMENTI - Peculato da intramoenia allargata

di Enrico M. Andreoli - 18.04.2013 09:50


Enrico M. Andreoli, Giusrista sanitario



Novità dal mondo giuridico-sanitario in tema di responsabilità dei medici del Servizio Sanitario Nazionale non conforme alle norme sulla libera professione.

La Corte di Cassazione (Sesta Sezione Penale) con la sentenza n. 33150, depositata il 23 agosto 2012, ha “disegnato” i confini della c.d. intramoenia “allargata”, sancendo in modo netto ed incontrovertibile l‘ascrizione del reato di peculato al medico dipendente colpevole di non aver provveduto al versamento nei confronti della Asl di appartenenza, parte degli emolumenti percepiti con l’attività condotta nel proprio studio autorizzato.

Una decisione anticipatrice della cessazione inderogabile di questo regime “esteso” nella sua forma attuale, fissata al 31 dicembre 2012 dalla legge 7 agosto 2012 n. 132, in attesa di una regolamentazione più organica.

Il regime di intramoenia si riferisce alle prestazioni erogate dai medici ospedalieri al di fuori del normale orario di lavoro con l’utilizzo di strutture ambulatoriali e diagnostiche dell’ospedale o tramite il ricorso a “esterne autorizzate”.

Il reato di peculato viene disciplinato dall’articolo 314 del codice penale e impone che il ”pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria”.

Il caso si riferisce ad un “camice bianco” dipendente della Asl di Napoli, al quale aveva corrisposto somme inferiori a quelle incassate, con la ulteriore aggravante di falsificazione di alcune attestazioni, per le quali veniva condannato in secondo grado anche per il reato di falso ideologico.

La Suprema Corte, smontando le contestazioni mosse dal ricorrente (vale a dire la non possibile assimilazione della intramoenia semplice all’interno dei locali aziendali, con quella allargata, nello studio privato), sposta il faro del giudizio principalmente sulla condotta successiva, id est la riscossione dei pagamenti.

Secondo la linea motivazionale degli Ermellini, a norma di legge, i proventi derivanti dall’esercizio libero-professionale sono oggetto di esazione da parte della Azienda sanitaria di competenza, la quale in seconda istanza, versa al medico la parte di diritto. Tutto ciò ai sensi dell’articolo 87 del DPR 270/1987.

Ne risulta che il sanitario si “tramuta” in vero e proprio pubblico ufficiale all’atto del percepimento degli importi da parte dei pazienti, divenendo un funzionario amministrativo virtuale. É perciò pienamente perseguibile ai sensi e per gli effetti del citato articolo 314 c.p., nel momento in cui vi sia una trattenuta illegittima “integrale” del denaro.

La Corte ha altresì annullato la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Napoli limitatamente al capo relativo al reato di truffa contestato al clinico per aver effettuato visite “clandestine” in un altro ambulatorio, non autorizzato dalla Asl.

L’articolo 640 del codice penale definisce come autore di truffa “chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”.

Il «fatto non sussiste», secondo i giudici di Piazza dei Tribunali, in quanto il profitto ingiusto non risulta correlato ad una disposizione dell’Azienda, indotta dal comportamento fraudolento del professionista, come richiesto dal medesimo articolo, secondo la ricostruzione dei fatti appurata anche all’interno delle sentenze del Tribunale e della Corte di secondo grado.

Pertanto, in sunto, il dato qualificante per caratterizzare o meno la morfologia del denaro riscosso (pubblico o privato) non è secondo la visione innovativa della sentenza il luogo di svolgimento (intramuraria “semplice” o “allargata” o, forzando un po’ il concetto, “extra-muraria”) dell’attività curante con conseguente mancanza nello studio privato di materiali, locali e personale “aziendale”, come rilevato dal soggetto imputato, bensì il momento preciso dell’incasso.

Ed è lì che il medico indossa, ut supra, anche il “camice” del pubblico ufficiale.

La veste della coscienza etica pubblica.